sabato 15 ottobre 2016

La ricetta segreta del campione olimpico

Campioni si nasce o si diventa? L’annosa questione del ruolo della genetica e dell’allenamento deliberato nella formazione dei talenti sportivi è da anni sulle pagine delle riviste e torna prepotentemente in occasione di eventi eccellenti quali le appena concluse Olimpiadi di Rio.

Gli strepitosi risultati di Bolt, Phelps e compagnia hanno certamente suscitato clamore nel mondo sportivo e mediatico e ci si chiede se non esiste una qualche “ricetta segreta” che giustifichi il numero di vittorie.

Diverse sono state le ricerche in merito, che hanno tentato di individuare nelle mutazioni di certi geni e nel loro combinarsi il substrato fisiologico del talento di questi atleti.

Certamente la performance sportiva dipende dalla natura del compito, dai fattori ambientali, contestuali e dal corredo genetico, per cui possiamo definirla come un “carattere multifattoriale” (come lo sono alcune malattie quali diabete, ipertensione, per le quali non è possibile caratterizzare un solo gene come responsabile di quel fenotipo).

Volendo prendere a modello gli sport di resistenza, secondo un articolo del 2009 pubblicato sul British Medical Bullettin, alcune mutazioni specifiche sarebbero responsabili di incrementi dell’endurance, in particolare:

Mutazioni che incrementano l’attività ed il numero dei mitocondri: questi organelli sono le centrali energetiche della cellula, in cui avviene la respirazione cellulare tramite un meccanismo chiamato fosforilazione ossidativa, che ha come fine ultimo la produzione di ATP, ovvero energia utilizzabile. Alcune di queste varianti sono nei geni che controllano il metabolismo di glucidi e lipidi (PPARD e suo coattivatore), altre la biosintesi di molecole implicate nel processo di respirazione mitocondriale (NRF1 e 2);

Mutazioni che aumentano la resistenza alla fatica muscolare: importanti sono quelle di HIF, una famiglia di geni che si attivano in risposta alla scarsa quota di ossigeno tissutale, stimolando il metabolismo anaerobio e l’eritropoiesi. Studi sui topi hanno inoltre dimostrato che lo knock-out dell’enzima CK-MM, responsabile della rigenerazione della creatina fosfato, uno dei principali composti “carburante” del muscolo, ha paradossalmente portato ad una maggiore resistenza alla faticabilità, ma basse concentrazioni peggiorano la performance. Altre mutazioni comprendono le proteine contrattili, quali l’actina e la miosina, responsabili dell’accorciamento muscolare e dello sviluppo della forza.

Mutazioni nel sistema tendineo: alcune varianti nei geni della Tenascina-C e Collagene (in particolare COL5A1) sono state correlate all’aumento dell’incidenza di tendinopatie traumatiche, anche se dovranno essere compiuti studi più approfonditi in merito.

Mutazioni nel sistema dei legamenti: polimorfismi di COL1A1, codificante per una forma di collagene, sono stati associati ad una predisposizione familiare alla rottura del legamento crociato anteriore;

Aspetti psicologici: è indubbio che la performance sia influenzata pesantemente dalla componente emotiva, intellettiva e tattica dell’atleta. Alcune evidenze suggeriscono che variazioni in 5′ nella regione regolatrice del gene di trasporto della serotonina siano implicate nel controllo dello stress.

Il ruolo della genetica, quindi, pur non essendo esclusivo, pesa tanto quando l’allenamento e lo stile di vita sulla performance finale: uno studio (noto come HERITAGE, del 1998) condotto su 98 famiglie, per un totale di 487 persone sedentarie, quando messe sotto allenamento per 3 volte a settimana per 20 settimane, hanno visto un aumento medio della VO2max (massima quantità di ossigeno che può essere utilizzata nell’unità di tempo da un individuo) mediamente di 0,4L/min, con un’escursione che va da incrementi di 1L/min a poco o nulla. I risultati dimostrano così una suscettibilità al training differente tra soggetto e soggetto.

Un esempio di tutto questo è riscontrabile nell’atleta olimpico Phelps, il pluripremiato nuotatore britannico, le cui caratteristiche fisiche lo rendono perfetto per questo sport; tanto per citarne alcune:

  • le braccia sono significativamente più lunghe del normale in rispetto al busto;
  • ha un angolo di apertura della caviglia maggiore di 15 gradi quando confrontato con il soggetto medio;
  • ha un’eccellente capacità di riciclare l’acido lattico, aumentando di molto la resistenza alla fatica

Queste ed altre peculiarità lo farebbero rientrare (seppur resti solo un’ipotesi mai confermata e più volte smentita) nello spettro della sindrome di Marfan, una malattia del connettivo, ereditata in maniera autosomica dominante, caratterizzata dalla perdita o scarsa espressione del gene per la fibrillina-1, proteina alla base della formazione delle fibre elastiche. Tutto ciò comporta una lassità ligamentosa, vasale, tendinea ed in generale dei tessuti elastici, tra cui i grandi vasi quali l’aorta, ma anche una formidabile flessibilità, vantaggiosa in contesti come quello del nuoto.

Va chiarito comunque che una certa “predisposizione”, pur essendo desiderabile, non è sufficiente a creare un campione: Phelps si allena a ritmi altissimi, con modalità molto specifiche che gli hanno consentito l’acquisizione di una tecnica eccellente per le sue peculiarità (ad esempio la virata in subacquea), fattore fondamentale nella determinazione di risultati spettacolari.

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Fonte: http://lamedicinainunoscatto.it/2016/08/la-ricetta-del-campione-olimpico/

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