venerdì 21 ottobre 2016

Alzheimer: nuove prospettive per un intervento precoce

Prevenire è meglio che curare. Un modo di dire comune che sta diventando sempre più il cavallo di battaglia della lotta contro diverse patologie neurodegenerative, in primis la malattia di Alzheimer (AD).

Sebbene nella patogenesi di questa malattia siano stati identificati elementi importanti quali le placche senili di beta-amiloide e le neurofibrille di proteina tau, la comunità scientifica è ancora alla ricerca di quel denominatore comune che possa condurre a una terapia che sia al contempo precoce e risolutiva.

Secondo Grace Stutzmann, neuroscienziata della Chicago Medical School, quel fattore comune potrebbe essere la disregolazione del calcio a livello neurale.

Il calcio è uno ione di vitale importanza all’interno delle cellule e nei neuroni svolge un ruolo primario nella plasticità cerebrale, ovvero la capacità del cervello di andare incontro a modificazioni anatomo-funzionali a seguito sia di normali stimoli ambientali che di insulti che ne determinano un danno.

Il calcio può arrivare a livello citosolico tramite due vie, dall’esterno o dall’interno della cellula. Nel primo caso questo ione, normalmente più concentrato nello spazio extracellulare, sfrutta dei canali ionici posti sulla membrana cellulare la cui apertura porta a un rapido passaggio di calcio nel citosol. Nel secondo caso invece il calcio è già presente nella cellula, ma segregato all’interno del reticolo endoplasmatico (RE), tra le cui funzioni vi è infatti quella di immagazzinare il calcio per poi rilasciarlo in risposta a specifici stimoli grazie all’intervento del recettore della rianodina (RyR) di cui esistono tre isoforme:

  • RyR1, principalmente espresso nel muscolo scheletrico
  • RyR2, principalmente espresso nel miocardio
  • RyR3, principalmente espresso nel cervello

L’innovazione  dell’approccio del team della Stutzmann è stata spostare l’attenzione dalla prima via (dallo spazio extracellulare al citosol) a ciò che accade a livello del reticolo endoplasmatico. Nello specifico il team ha identificato RyR come l’elemento alterato responsabile dell’eccessivo rilascio di calcio ritenuto alla base di una cascata di processi patologici che portano in ultima analisi alla morte del neurone.

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Una volta scoperto il ruolo di RyR nella patogenesi dell’AD il team della Stutzmann ha testato nel modello murino diversi farmaci che permettono di inibire tale proteina e uno di questi ha avuto risultati promettenti: oltre a contenere l’eccessivo rilascio di calcio dal RE ha infatti modificato l’accumulo di beta-amiloide e proteina tau e ha ridotto la perdita di sinapsi proteggendo dunque la plasticità cerebrale.

I risultati hanno portato il team a cercare di produrre un farmaco che possa ottenere gli stessi risultati nei soggetti umani a rischio di sviluppare AD, ma alle difficoltà relative allo sviluppo di un nuovo farmaco si aggiungono anche quelle relative all’identificazione stessa dei soggetti a rischio.

Ad oggi non esistono purtroppo marker sicuri che permettano di segnalare con largo anticipo il rischio di sviluppare AD. Un primo approccio consiste nella somministrazione di test neuropsicologici che testino in primis la memoria episodica e la fluenza semantica, al quale aggiungere una valutazione tramite neuroimaging, campo in cui recentemente sono stati fatti significativi passi avanti.

Sia tecniche di studio strutturali quali la Risonanza Magnetica (RM) che indagini funzionali quali la Tomografia ad Emissione di Positroni (PET) possono essere usate per carpire sottili indizi dell’instaurarsi di questa patologia neurodegenerativa.

Uno studio svolto al Nuffield Department of Clinical Neurosciences dell’Università di Oxford ha per esempio dimostrato come, sfruttando particolari criteri di indagine, sia possibile cogliere all’RM modificazioni volumetriche già almeno 4 anni prima della manifestazione degli iniziali sintomi dell’AD. Nello specifico tra le prime ad andare incontro ad atrofia vi è una regione notoriamente coinvolta nei processi mnesici: la corteccia temporale mesiale.

Nelle stesse aree così come nelle cortecce parieto-temporali si è inoltre in grado di verificare una riduzione dell’attività metabolica tramite PET; la principale difficoltà in questo caso è distinguere una riduzione patologica da quella che fisiologicamente occorre all’avanzare dell’età.

Infine è stata proposta recentemente anche l’EEG come valido strumento nella diagnosi precoce di AD: una ricerca svolta dall’Università di Strasburgo ha indagato l’alterazione dei normali ritmi dell’attività cerebrale nei pazienti a rischio di sviluppare AD.

In base alla frequenza è possibile suddividere le onde cerebrali in 5 bande: gamma (>30 Hz), beta (15-30 Hz), alfa (8-12 Hz), teta (4-7 Hz) e delta (1-4 Hz). L’alternanza tra le varie bande correla con specifiche attività mentali e a livello ippocampale, sede dei processi di codifica della memoria, si può osservare una sincronizzazione nell’interazione tra i ritmi teta e gamma. Tale sincronizzazione, sia nel modello animale che in quello umano, verrebbe meno ancora prima della manifestazione dei primissimi deficit cognitivi correlati all’AD consentendo quindi di intervenire precocemente nel tentativo di contrastare la progressione della malattia.

Fonti |  Studio Nuffield Department of Clinical Neurosciences; Studio EEG

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Fonte: http://lamedicinainunoscatto.it/2016/10/alzheimer-nuove-prospettive-per-un-intervento-precoce/

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